mercoledì 26 settembre 2018

La sottile, immaginaria linea della normalità..

Nella vita c'è a volte chi apre nuove vie, nuove possibilità..uscendo dal “si è sempre fatto così” e cercando nuovi sentieri nelle giungle dell'ignoto..

Oggi vi scrivo per raccontarvi della meravigliosa esperienza che ho vissuto qualche settimana fa a Sondrio allo stupendo rifugio Zoia, dove ho conosciuto un gruppo di “disabili” e i loro educatori, dell'associazione “Progetto La Fonte” di Firenze. Una realtà che davvero sta frantumando molti stereotipi e schemi nel rapporto con la disabilità.
Al rifugio c'ero già stato e stavo già pensando di tornarci. Qualche tempo prima di partire, Lele il proprietario, mi faceva sapere che fino al 29 Agosto ci sarebbe stata questa associazione e che, ne era certo, mi sarebbero piaciuti un sacco.
Lunedì arrivavo per cena, ma li avrei conosciuti solo l'indomani. Il giorno dopo infatti, su richiesta di Lele, avrei servito io la cena al gruppone.
Già guardandoli da lontano, qualcosa mi aveva catturato e stupito.. l'atmosfera che si respirava era di un gruppo di amici, una comitiva di 22 persone che si conosce da tempo.
I ragazzi in questione vengono, secondo i canoni della cosiddetta “normalità”, considerati disabili. Ora, per necessità linguistiche e per capirci, dobbiamo definire e appioppare etichette, ed è comprensibile. Quello secondo me inaccettabile è darle per scontate, lasciare che se ne stiano li a rappresentare al 100% la realtà, una realtà fatta di infinite sfaccettature ma che vengono sistematicamente piallate e annullate da quelle etichette.

Alla cena di martedì dunque ero pronto per servirli per poi fermarmi a cenare con loro.
Il trucco per entrare in sintonia è solo quello di buttarsi, di accettare il gioco e partecipare senza giudicare, in semplice compagnia. Dopo qualche ora con loro, la mia gioia era incontenibile, una gioia che nasceva dalla sensazione di libertà dalle maschere, dalle etichette e dai giudizi. E' in questo modo, frantumando questi muri, che andiamo all'essenza è cioè: la partecipazione.

Lo scopo di noi tutti in questa vita è quello di fare del nostro meglio, di sublimare le nostre paure e limiti nel fuoco delle nostre capacità, nella fornace delle nostre qualità qualunque esse siano, per produrre un liquido vitale più denso e rendere l'universo fecondo di possibilità.
Questo è ciò che gli educatori dell'associazione “La Fonte” fanno con i ragazzi, credendo in loro e mettendoli nelle giuste condizioni di valorizzarsi e diventare partecipi della propria vita.
Credere in loro anche quando purtroppo sarebbe comune arrendersi lasciandoli nel loro ristretto campo di azione.
Molti di questi ragazzi sono cresciuti nelle strutture dell'associazione, proprio come una vera famiglia della quale fanno parte in maniera integrante. Nessun servizio di circostanza dunque da parte degli educatori, o di sufficienza, giusto per dare il minimo di dignità.
Ma cosa significa dare dignità? Nella maggior parte dei casi significa vestire la disabilità di una maschera accettabile e dove gli aspetti più scomodi siano ordinatamente nascosti. Significa in pratica, prendersi cura del corpo e poco più, accettando passivamente i limiti.
Dare dignità invece, secondo me è dare valore alla persona dando le stesse possibilità che tutti hanno, creando partecipazione e inclusione. Significa che ognuno, in qualunque condizione, stato e salute possa portare il suo contributo umano al percorso della vita, in maniera diretta o indiretta. Sta a noi saperci aprire alle lezioni che queste persone possono darci e farle fruttare al massimo.

Di educatori ne ho conosciuto vari nella mia vita, ma qui la grande differenza è che loro in primis non sentono la netta separazione tra educatore e utente.. quel sottile ma invalicabile muro che separa “colui che ha bisogno” da “colui che aiuta e che quindi NON ha bisogno”. Un muro che in realtà ha dei confini molto labili.
Confini che non possono rappresentante le infinite sfumature dell'essere umano, e quindi tanto meno valorizzarle.
Non mi è mai andata giù quell'appiccicosa pietà travestita da compassione che la gente esprime di fronte ad un disabile. Tra i due, ho sempre provato pietà per il “normale” di turno che compativa il secondo, per non saper vedere oltre il proprio naso, andando inoltre a ricalcare l'etichetta sulla quale viene crocifissa la persona definita “disabile”.

Passando del tempo con gli educatori si ascoltano decine di storie e aneddoti divertenti sui ragazzi.
Mentre li ascolto mi si dipingono in mente i tratti di superori comici, personaggi buffi che divertono con le loro avventure leggere e scanzonate.
Certamente il fatto di essere toscani li rende irresistibilmente simpatici, capaci di scherzare su tutto anche sul peggiore dei mali, ma sempre con quella deliziosa partecipazione che rende tutto condiviso.
Un gruppo di amici che per stima e affetto si raccontano aneddoti divertenti e dissacranti. Dissacranti perchè abbiamo bisogno di ironia, di dissacrare appunto, perchè dal “sacro” al tabù il passo è davvero breve e spesso automatico.
Dissacrare però non significa ridere-di, ma ridere-con cioè assieme all'interessato, ridere con lui della vita, ridere di gioia perchè vale sempre la pena esserci, se attorno si hanno fratelli e sorelle disposti a ridere con te. E' farsi beffa dei cosiddetti problemi della vita, trovandone il lato comico e ridendone assieme.

Ma perchè questa associazione spende migliaia di euro per portare in montagna dei ragazzi dove, tra limiti fisici e cognitivi ci si potrebbe chiedere quanto possano fruire dell'esperienza? Perchè è un diritto di tutti poter stare al cospetto della bellezza, punto. E' un diritto di tutti avere qualcuno che crede in noi e non si arrende anche quando pare impossibile farcela.

Mercoledì il gruppo si sarebbe diviso in due, quelli che facevano dei giochi e quelli che sarebbero andati a camminare. Io mi aggregavo al secondo.
Nel giorno della camminata si raggiungeva un bel laghetto in quota e li ci si riposava un oretta distesi sul prato. Di fronte a me c'era S. un ragazzo con forti limiti cognitivi e che vive in un mondo tutto suo. Lo guardavo li di fronte a me, disteso sul prato, a fissare l'imponente montagna che si rifletteva in una cristallina immagine sul lago e mi pareva che il silenzio suo e quello della montagna diventassero una cosa sola. Mi sembrava che lui, a differenza di me, sapesse davvero connettersi con il grande Silenzio della Natura, e che io con tutte le mie capacità cognitive fossi invece perso nei miei dialoghi interiori, che però troppo spesso mi separano dalla bellezza che non parla, che non ha concetti. 

Nessun commento:

Posta un commento